Il caso e la storia giuridica: un soggetto ricorreva per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello de L’Aquila che, confermando la decisione di prime cure, rigettava la domanda di risarcimento proposta nei confronti di un quotidiano e di un giornalista per la diffamazione a mezzo stampa posta in essere mediante la pubblicazione di notizie (che l’Autorità Giudiziaria non gli aveva mai contestato) relative al suo arresto.
Motivi di ricorso: il ricorrente si affidava a tre motivi di ricorso:
La decisione: con l’ordinanza che si commenta, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo che le censure proposte dal ricorrente fossero tutte inammissibili per violazione del principio dell’autosufficienza e assolutamente generiche, poiché prive dell’analitico richiamo dei passaggi della pronuncia impugnata. All’uopo, gli Ermellini hanno chiarito che: “i motivi di ricorso devono necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità”.
La condanna aggravata per lite temeraria: sulla scorta delle sopra cennate ragioni, i Giudici di Piazza Cavour hanno condannato il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità ritenendo sussistenti i presupposti di cui all’art. 96 c.p.c. In argomento, la Suprema Corte ha chiarito che la condanna ex art. 96, comma 1° c.p.c. rappresenta una sanzione di carattere pubblicistico volta a contrastare il fenomeno dell’abuso del processo. Indi, la sua applicazione non richiede la sussistenza del dolo o della colpa grave bensì che si configuri una condotta che violi oggettivamente il principio della ragionevole durata del processo in quanto posta in essere da un soggetto che decide di agire o resistere pretestuosamente non vantando una plausibile ragione. Alla stregua di tanto, la Corte ha ritenuto compatibile con l’ordinamento italiano, il sistema di origine statunitense del risarcimento cd. “punitivo”.
Riflessioni: l’ordinanza oggetto del nostro esame prevede la condanna ad un danno cosiddetto “punitivo”, ed è su questo che, indipendentemente dai fatti del giudizio, ci si vuole soffermare. Infatti, i danni punitivi rappresentano argomento delicato e fortemente dibattuto. In particolare, molto si è discusso circa la compatibilità dell’ordinamento giuridico italiano con siffatta tipologia di danno, di origine statunitense (e, dunque, ben collocato nel sistema di Common Law).
Con la pronuncia in esame, gli Ermellini confermano l’esistenza nel nostro ordinamento di condanne di natura punitiva e la compatibilità degli stessi con entrambi gli ordinamenti giuridici di riferimento. Il principio, per la verità, era già stato sancito dalla Suprema Corte (n. 16601/2017) ove i Giudici di Piazza Cavour chiarivano che : “la responsabilità civile non ha solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile”. Ciò premesso, la Corte chiarisce che, in relazione al fenomeno dell’abuso del processo, l’ordinamento giuridico non può non contemplare strumenti di natura deterrente-persuasiva che, in realtà, già esistono anche nel nostro ordinamento.
Risvolti pratici: l’applicazione della condanna ex art. 96, co. 3° c.p.c. a titolo di “punizione” per l’abuso dello strumento processuale si fa, dunque, strada nel nostro ordinamento e diviene fortemente auspicabile in tutte quelle controversie che vedono ingiustamente reiteratamente convenuti in giudizio (anche in appello) gli Istituti Assicurativi per fattispecie di minima entità.
Staremo a vedere se i Giudici del merito sapranno fare buon governo dei principi sanciti.
Per leggere il testo integrale dell’ordinanza, fare click qui: Cass_Civ_III_sez_ord_n_16898_19_dep_25_giu